«Se fosse..?»

Era il mio gioco preferito da bambina. L’unico che ricordi in maniera vivida.

Si faceva in macchina, durante i rari viaggi tutti e quattro insieme. Federica e io sedute sul sedile di dietro, mamma e papà davanti. La musica francese (che all’epoca consideravo insostenibile, io volevo sentire gli 883!) veniva spenta e, come mai accadeva altrove, si lasciava spazio alla leggerezza.

A turno qualcuno pensava a un conoscente comune e gli altri giocatori dovevano indovinare di chi si trattasse, avendo solo a disposizione la domanda «se fosse..?». «Se fosse un libro, quale sarebbe?», «Se fosse una canzone?», «Se fosse un periodo o un personaggio storico, un cibo, un mese dell’anno?». A parlare di quella persona erano i suoi gusti, tratti evidenti della sua personalità, qualcosa che a tutti ricordava proprio lui o lei. Associazioni libere ma accurate, fantasia a briglie sciolte, profili di persone fatti di sole, pasta al pomodoro e Napoleone Bonaparte.

È un gioco che mi piace ancora oggi, uno dei pochi che conosco. Un modo delicato ed evocativo per parlare di sé.

Se fossi un colore sarei Verde. Dal sottobosco alla vita che rinasce. Come i miei occhi, come l’equilibrio e la riflessività. Come l’energia e il via libera dei semafori. Come la speranza che non si affievolisce. Giallo e blu, è il colore che assume in sé la contraddizione e la rende bellezza : luce e buio, i due volti del mio animo. 

Se fossi una favola, sarei Il Colombre, di Dino Buzzati. Uno strazio e un monito bellissimo, un invito a vivere qui e ora, a non replicare le paure di chi ci ha cresciuto, ad aspirare alla felicità.

Se fossi un modo verbale sarei il Presente. Indicativo o congiuntivo che sia. Il tempo del qui e dell’ora, il tempo del sentire, del ricordo e dell’attesa. La risposta all’appello fin dai tempi della scuola; che ribadisce il diritto a occupare il proprio spazio vitale. Il tempo delle affermazioni, quello che suona gentile dopo i “nonostante” e i “benché”. 

Se fossi vino sarei rosso, mediamente corposo e inebriante. Lasciapassare per conversazioni meno abbottonate e per il meglio di sé. 

Se fossi un animale sarei un gatto. Il felino per eccellenza. Più che un animale, un guardiano psichico. Custode dell’anima, per pochi. (S)elettivo, elegante, discreto. Mai di troppo. Fedele, a modo suo. Liberamente. 

Se fossi un senso sarei l’olfatto, senza dubbio. Per quanto ogni tanto in gara con gli altri, la centralità dell’odore resta sempre imbattuta. La mia memoria è olfattiva, la codificazione di situazioni ed esseri umani anche; mi oriento nel mondo così. Decisamente in contrasto – ma non contraddizione – con la mia razionalità. Con il mio essere anche una creatura cerebrale. Fiuto, istinto: gli odori segnano i territori accessibili, il grado delle distanze – o dei contatti -, i riconoscimenti e i disgusti. Spirituali e non.

Se fossi punteggiatura, sarei punto e virgola. Che non è fine, ma respiro. È un “non è ancora finita”, un “ce n’è ancora”. Un po’ da insaziabili. Da incolmabili. Da gente che vuole sempre qualcosa di più. Che mette  i puntini sulle ‘i’. Feticismo dell’esattezza: ne sono affetta. È più riflessiva della virgola e meno esplicativa dei due punti. È rara, spesso dimenticata. E, come tutti i cimeli, si riveste per me di fascino. 

Se fossi una parola sarei ‘Quasi‘: m’incanta per il senso di precarietà che ispira. Per quell’intrinseco non so che di non finito. Per quel qualcosa che non c’è, in divenire. Per il mio non sentirmi abbastanza, per il mio non aver ancora imparato che la perfezione non esiste. È una parola liminale, che segna il confine tra tutto e niente. Eppure è così densa. Dice e non dice, vedo e non vedo. Il punto più alto, dopo il quale non si può che iniziare a declinare. 

Se fossi una stagione sarei Autunno. Perché è una stagione saggia, che sa far tesoro del “prima” e custodirlo durante il freddo. Una stagione che non dimentica e conosce la pazienza. Perché è una stagione realista, che sa che niente dura per sempre. Stoica, non teme la fine perché consapevole che prima o poi tornerà un inizio. Per quell’odore di pioggia prima che cada che si sente solo tra ottobre e novembre. Inconfondibile. È la stagione in cui ricordo cosa significhi riparo. È la stagione della malinconia, che trovo un sentimento bellissimo. 

E, però, se fossi una citazione, in cui c’è tutta me, sarei «Nel bel mezzo dell’inverno ho finalmente imparato che c’era in me un’invincibile estate».

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